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Guerra alla droga. Farla e continuarla senza esserne convinti. Il caso Calderon/Messico: un monito?
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Articolo di Vincenzo Donvito
27 settembre 2020 14:20
 
Circa 275.000 (duecentosettantacinquemila) morti dal 2007. Sono le vittime della “war on drugs” (guerra alla droga) fatta propria da quegli anni dall’allora presidente del Messico Felipe Calderon. Questo presidente “messicanizzò” una guerra che era stata lanciata nel 1971 dal presidente Usa Richard Nixon quando dichiarò l’abuso di droghe “il nemico pubblico numero uno”, ed ha avuto il determinante sostegno di tutti i presidenti Usa che lo hanno seguito. Guerra che anche i successori di Calderon (il suo mandato finì nel 2012) hanno continuato e continuano sempre col supporto degli Usa.

Duecentosettantacinquemila morti che, se non ci fossero stati rappresenterebbero la popolazione di una media città di qualunque parte del mondo. Morti che con sé, davanti e dietro sé, hanno portato e portano sfascio economico, politico e sociale. Morti che hanno fatto diventare in questi anni il Messico uno dei Paesi più pericolosi al mondo. E questo anche oggi che, col presidente in carica Andrés Manuel López Obrador (popolarmente chiamato AMLO), gli sforzi per interrompere questa violenza civica e umana sono maggiori che in passato. Cosa poi la “war on drugs”, messicana e non solo (ma dove il Messico ha un ruolo determinante, non solo nelle Americhe ma in tutto il mondo) abbia rappresentato e rappresenti per l’instabilità economica, sanitaria e politica, è quotidianità delle strade e della vita di ogni paese o città del Globo.

E’ di questi giorni una intervista all’ex vice-primo ministro britannico Nick Clegg che, conversando con il giornale Vice-news, ha riferito di una sua conversazione del 2011 con Felipe Calderon proprio nel merito. Il presidente messicano mentre stava conducendo a ritmo serrato la propria guerra alla droga, gli disse “... abbiamo passato anni cercando di fare questa guerra alla droga che è impossibile da vincere. Non si vincerà mai a meno che non si levi il business alla criminalità andando verso una regolamentazione delle droghe". Calderon, raggiunto sempre dallo stesso giornale, anche se si è un po’ “intrecciato”, sostanzialmente non ha smentito quanto riferito dal ministro britannico, affermando di aver sollevato da tempo la possibilità della legalizzazione come soluzione ai problemi relativi alla violenza legata alla droga, ma che non è mai stato convinto nel merito.

Tra coloro che perorano la legalizzazione delle droghe nel mondo c’è anche un’organizzazione di leader mondiali, con molti ex-capi di Stato: “Global Commission on Drug Policy”. Molti personaggi che quando erano in carica non si erano spesi per la legalizzazione di nessuna droga, ma che, terminato il proprio mandato, hanno cambiato opinione. Per quanto ne sappiamo, il nostro Felipe Calderon non vi ha aderito.

Questa notizia/vicenda suscita attenzione e riflessione. Nel particolare e in generale.

Nel particolare. Come ha fatto un capo di Stato a perorare e rendere sempre più dura una guerra di cui lui stesso non ne era convinto? Si presume che un capo di Stato sia uno statista, uno che ragiona e agisce nell’interesse dello Stato che lo ha scelto per dirigerlo. Ma se durante questa guerra il nostro statista è già consapevole della inutilità del suo operato, e mentre lo dice ad un suo “collega” britannico migliaia di persone muoiono e lo Stato che dirige peggiora rispetto a certezze, economia, salute, politica... come fa a non rendersene conto? Quantomeno per una “fase di riflessione”, l’apertura di un confronto con se stesso e i suoi prossimi? Oppure se ne è reso conto ed ha continuato a far morire persone e civiltà perché incapace di semplicemente “cambiare idea”? Crediamo che a domande del genere non avremo risposte dal diretto interessato. E tantomeno da coloro che lo hanno foraggiato e stimolato in quello che faceva. Dovremo “accontentarci” delle narrazioni degli storici e dei giudizi dei partigiani di una o di un’altra parte.

In generale. Qual è il rapporto di un presidente col suo Stato? Quanto è determinante e condizionante il proprio pensiero e il proprio orgoglio rispetto alla macchina che dirige? E, soprattutto, quali sono e come funzionano gli strumenti per far capire a quelli come Calderon che non sta facendo l’interesse del popolo nel momento in cui lui stesso ha dei dubbi? E perché non hanno funzionato nel nostro caso? Domanda decisamente pleonastica, la nostra. Le risposte sono nella politica, soprattutto nel condizionamento politico che sul Messico hanno gli Usa, con la loro contraddizione di essere i più tenaci finanziatori della “war on drugs” e, nel contempo, di essere il maggiore consumatore delle droghe che arrivano dal Messico, nonché i maggiori esportatori delle armi che i narcos usano in Messico per il proprio business e la destabilizzazione del Paese.

In conclusione non possiamo che osservare che la “war on drugs” non è stata e non è una cosa seria. Ma una sorta di fregola ideologica che, mescolandosi con la politica, si è altamente disinteressata del fatto che i suoi metodi producevano e producono risultati contrari a quelli auspicati. Gli “uomini tutti di un pezzo”, come il nostro Calderon che ha continuato nonostante i suoi dubbi, hanno la prevalenza (anche machista) sul buon vecchio e saggio ragionamento, a qualunque prezzo.

Ma molto probabilmente sono le guerre, qualunque esse siano, che non sono mai una cosa seria.

Nota
1 - ovviamente facciamo questa domanda perché consideriamo il Messico non un regime autoritario ma democratico e parte del cosiddetto mondo libero.
 
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