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'Non appartengo più ad alcun luogo'. I diari di Stefan Zweig e la fragile consolazione della letteratura nella condizione dell’emigrazione
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Articolo di Redazione
17 aprile 2018 10:34
 
Da diversi giorni sto leggendo i diari di Stefan Zweig. I diari sono più attendibili delle autobiografie. Non sono ricordi che vengono scelti molto tempo dopo l’esperienza fatta, seguendo lo spirito del tempo, ma annotazioni scritte con immediatezza. Nella prima guerra mondiale Zweig scrisse: “… ora poter solo dormire, sei mesi, non saper più niente, solo non vivere questo sfacelo …”.
Ma lui lo deve vivere. Poi segue la seconda guerra mondiale: nessuna casa editrice, nessun giornale che lo stampi più. L’emigrazione lo porta da un Paese all’altro. Nel 1940 annota che tutto peggiora … Senza sapere dove andare, non ha neppure la forza di fare le valigie. Dice di non avere un timone, non un remo, non appena crede di avvicinarsi alla riva, eccolo andare alla deriva nel mare aperto … “Si farebbe meglio ad avere pronta ogni volta una bottiglia di morfina”.
Quando stavo per finire di leggere i diari, feci un viaggio in Lussemburgo su invito dell’”Istituto Pierre Werner”. Sulla strada per andare alla conferenza scoprii quella riga sulla fotografia di un transatlantico: “Non appartengo più ad alcun luogo”.
Una mostra su Zweig! Era chiusa, ma la mia richiesta di visitarla fu esaudita e mi fecero entrare. Nello spazio sotto la fortezza imponente mi dettero nell’occhio degli scatoloni. Forse la mostra sta per essere smontata, ho pensato, ma poi il nesso mi è stata chiaro. Erano le valigie di uno scrittore in esilio. Adesso servivano da vetrine della mostra.
Al guardaroba della mostra erano appesi i cappotti di pelle degli ufficiali della Gestapo. Animato da una spinta, che dovrebbe essere nota ai lettori della Novella degli scacchi, frugai nella tasca di un cappotto. Che fosse infilato lì il libro degli scacchi?
Quando, due anni fa, fui rinchiuso a Silivri, la più grande prigione della Turchia, mi feci subito dare l’elenco dei libri della biblioteca e ordinai la Novella. Fu una consolazione, mi portò via dalla cella, mi trasportò sul piroscafo per Buenos Aires, mi insegnò gli scacchi e mi dette speranza. La Novella, che narra di come un prigioniero di una prigione di tortura si attacca alla vita con l’aiuto di un libro sottratto alla tasca del cappotto di un uomo della Gestapo, settantacinque anni dopo che era stata scritta legò alla vita un altro prigioniero. E’ questa la forza della letteratura. Solo per l’autore a volte essa non è sufficiente …
Quando lasciai la mostra, mi fu chiaro che questa vita, che finì in un modo tanto angoscioso, rimanda al mondo che oggi spinge sul mare aperto – e anche sui miei beni stipati negli scatoloni. E quando entrai nella sala delle conferenze, riecheggiò dentro di me l’ultimo pensiero dei diari: devo sprecare il mio tempo in conferenze, mentre l’anima mi si raggela nel corpo? Sarò strappato presto di nuovo al mio lavoro, al mio focolare? Precipiterò nell’ignoto, in un precipizio?”.
E’ noto che Zweig scrisse anche Momenti fatali [Sternstunden der Menschheit]. E’ evidente che attualmente non ci troviamo in tali momenti.

(Articolo di Can Dündar, da “Die Zeit” n. 15/2018 del 7 aprile 2018)
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