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I rischi del buon umore a tutti i costi
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Articolo di Redazione
5 gennaio 2011 15:05
 
Dovremmo sorridere sempre, vedere il bene dovunque, guardare al futuro con ottimismo: il pensiero positivo sembra ormai d'obbligo. Ma su "Zeit Wissen", Anna Gielas spiega che è utile dare cittadinanza anche ai sentimenti negativi.

Nella libreria di Inge Hufer vari libri trattano del pensare in positivo. Gli autori si chiamano Dale Carneige o Rhonda Byrnes. Si vede che sono stati letti perché ci sono le pagine con le orecchie d'asino. Ma Inge fa un gesto sprezzante. "Via dal pensiero positivo!", dice la donna di 61 anni, capelli cortissimi e guance incavate.
All'inizio del 2009 le fu diagnosticato un cancro al polmone. Più della chemioterapia, a farla soffrire furono le continue sollecitazioni di medici, infermieri e amici a pensare in positivo. Un medico la rimproverò di scarsa collaborazione e le suggerì di leggere Carneige. Il suo libro aveva avuto un enorme successo: 2,8 milioni di copie vendute solo in Germania, e fu in cima alla lista dei bestseller per moltissime settimane. "Ho pensato che se così tanti l'avevano comprato, doveva essere senz'altro d'aiuto".
Per i manuali successivi Inge si è fidata della loro promessa che avrebbero guidato ciascun lettore a una vita appagante. Ma niente. Nonostante la lettura e il sorriso, le cose non andavano meglio. Anzi. "Più mi sforzavo di pensare in positivo, e più mi sentivo vuota", ricorda.
La faccenda è complicata. E' vero che alcuni studiosi hanno documentato in maniera scientifica i vantaggi fisici e psichici derivanti dall'atteggiamento positivo verso la vita. Ma per molti il risultato può essere vanificato dallo sforzo che ciò comporta. Come per Inge, col suo tentativo spasmodico di bandire ogni emozione o pensiero negativo. Per alcuni può essere addirittura rischioso: "Lo sforzo di pensare in positivo può causare danni in chi ha subito un trauma", avverte Scott Lilienfeld, docente di psicologia all'ateneo Emory di Altanta. Bisognerebbe rispettare le differenze individuali: "Non c'è una ricetta valida per tutti".
A Inge il dover essere ottimista creava non solo un senso di vuoto, ma anche dubbi in se stessa. "E se fossi talmente pessimista di natura che tentare la positività risveglia in me emozioni avverse?". Grande la sua inquietudine fino a quando un libro della scrittrice Barbara Ehrenreich le ha ridato coraggio. Ehrenreich è una delle autrici più famose in Usa; i suoi saggi li pubblica il New York Times, i suoi libri vanno a ruba. Inge è stata attratta dal titolo provocatorio: "Smile Or Die" -Come l'ideologia del pensiero positivo istupidisce il mondo". Lo ha letto in due giorni e alla fine s'è sentita compresa come non le capitava più da due anni.

"Il mantra del pensiero positivo non fa per me"
Leggere Ehrenreich l'ha aiutata a liberarsi dall'ottimismo forzato. Ma gli altri manuali li tiene ancora lì sugli scaffali. "Che siano di monito contro la tentazione di farmi convincere su come pensare e sentire".
Un'esperienza simile l'ha vissuta la stessa scrittrice Ehrenreich, dopo la diagnosi di cancro al seno. La famiglia e gli amici le consigliavano d'accettare la malattia, di vederla come un dono. Ma il mantra del pensiero positivo non le si confaceva. Era arrabbiata contro il cancro. Nel libro descrive di aver manifestato quella rabbia in un forum: perché la malattia ha colpito proprio me? che ho fatto di male? Ma i sentimenti di rabbia e impotenza furono accolti con aspre critiche. Un commento: "Barbara, dovresti correre da uno psichiatra e farti guidare verso pensieri positivi, e non diffondere la tua negatività nel forum". Dopo quest'esperienza, Ehrenreich si è convinta che il pensiero positivo forzoso rende intolleranti verso le paure altrui. Un'insensibilità, fomentata da certa letteratura.
Ma il concetto di pensiero positivo non viene trasmesso solo dai libri. I tedeschi spendono 9 miliardi di euro all'anno (sic!) in corsi di motivazione, seminari per irrobustire la personalità, laboratori di ottimismo. Col pensiero positivo si pretende addirittura d'aiutare i bambini di 5 anni troppo grassi.
Alla sua popolarità ha contribuito la psicologia positiva. Gli esperti in questa disciplina mirano a individuare le tracce scientifiche della felicità, affinché ognuno impari a essere contento in modo stabile. Quest'obiettivo se l'è posto il suo ideatore, Martin Seligman. A metà degli anni novanta, il professore della University of Pennsylvania di Philadelphia depennò dalle sue ricerche nevrosi e psicosi, in quanto frustranti. "Pur essendo d'aiuto ai miei pazienti, non riuscivo mai a farne delle persone positive". La colpa, secondo lui, era delle terapie psicoanalitiche. "Pretendono che ci rivolgiamo al peggio, a ciò che ci fa ammalare". Invece la psicologia positiva vuole gettare un ponte tra il concetto di pensiero positivo e la scienza. Quest'argomento piace e interessa; ci sono Governi che chiedono consiglio a Seligman per sapere come rendere più positivi e contenti i cittadini, e a lungo. Ovunque sorgono scuole e strutture pedagogiche ispirate ai suggerimenti di Seligman. Nella Scuola Willy Hellpach di Heidelberg la felicità è divenuta materia di studio, in Usa la psicologia positiva piace a istituzioni accademiche famose come l'Università di Harvard. Nel 2006 le lezioni dello psicologo positivo Tal Ben-Shahar, frequentate da 900 studenti, erano le più seguite. Promettevano di raggiungere la felicità in sei tappe.

Un sorriso perenne non è auspicabile

Il nepalese Rajeev Mehta non ce l'ha fatta. L'allora 23enne studente di fisica voleva imparare a essere più aperto e positivo. "In generale sono una persona inibita", dice. Ma più si dava da fare per pensare con ottimismo agli esami e peggio erano i risultati.
In realtà, immaginare che tutto possa andare storto serve ai paurosi. Non il pensiero positivo, ma un pessimismo difensivo può aiutare nell'insicurezza, come indicano gli studi di Julie Norem. Dagli esperimenti che conduce fin dagli anni ottanta, la psicologa del Wellesley College di Cambridge (Usa) ha notato quanto segue: se la persona incerta e timorosa mette nel conto gli errori e i guai che potrebbe combinare, acquista il controllo su di loro e migliora le prestazioni. Guardare in faccia i problemi dà forza e tranquillizza.
Per Mehta il pessimismo difensivo è stato veramente un ausilio prezioso. Prima di un esame o di una conferenza ora pensa agli scenari plausibili: la memoria che va in cortocircuito; i possibili lapsus; gli sbagli; termini linguistici impropri. Più Metha si concentra sulle situazioni da pelle d'oca, più si sente sicuro quando arriva il momento fatidico. Capita ormai di rado che abbia paura.
In generale le emozioni negative come la paura svolgono un compito importante: sono indispensabili per segnalare a ciascuno di noi come stiamo davvero. "Quale utilità avrebbe una bussola che segnasse solo e sempre il Nord?", si chiede Daniel Gilbert della Harvard University. Così come l'ago della bussola deve oscillare in varie direzioni per essere utile, l'uomo deve poter seguire i diversi stadi delle sue emozioni. Camminare soli di notte in un ambiente buio e provare sensazioni allegre non è per nulla auspicabile.
Il sorriso perenne non è augurabile, malgrado la copiosa letteratura in merito. Cargie lo descrive come uno dei più efficaci mezzi terapeutici. Hermann Karstein, autore del libro "Positive Thinking for Positive Living" consiglia: "Sorridi, sorridi, sorridi!". Eppure un sorriso forzato non assicura sentimenti positivi, come dimostrano le indagini del neuropsicologo Richard Davidson e dei suoi colleghi Paul Ekman e Wallace Friesen. I tre si occupano da vent'anni del ridere e delle sue origini emotive, e hanno classificato determinate emozioni in base ai movimenti di oltre cento muscoli facciali. In vari studi, condotti dal 1990, hanno visto che il sorriso finto è collegato a zone del cervello che presiedono a sentimenti negativi. Ekman ha anche potuto provare che un sorriso forzato e superficiale in una persona sofferente di disturbi cardiaci può portare all'ischemia. Dunque, non tutti i sorrisi sono positivi.
L'assistente di volo Laura Berentz conosce di prima mano gli effetti collaterali di un sorriso stampato solo in viso. Le 31enne si definisce una "sorridente per professione". Sorridere non le dà problemi nemmeno con i passeggeri maleducati, ma alla fine la positività indotta ha avuto un costo: "Sono diventata irascibile e il sorriso perpetuo ha accentuato la mia rabbia", dice. Sebbene il consiglio di sorridere sia stato dato con le migliori intenzioni, Laura non lo mette più in pratica. Ed è un bene che sia così giacché chi non sorride sempre, ma si misura con le sensazioni spiacevoli, fa una cosa buona per la propria psiche. Lo dicono gli studi di James Pennebaker, psicologo alla University of Texas di Austin. Sarebbe bene che il rapporto con la negatività avvenisse per iscritto, consiglia. La chiama "scrittura espressiva". In numerosi esperimenti ha constatato che questo modo di scrivere, se fatto regolarmente, aiuta non solo a dominare le emozioni negative, ma stimola  lo star bene, e a lungo termine.
Laura Berentz l'ha sperimentato. Ha iniziato per più giorni a descrivere, un quarto d'ora per volta, le esperienze più frustranti con i passeggeri. Scrivendone, non si è limitata a raccontare i fatti, ma a narrare sensazioni e pensieri ad essi collegati. "Alla fine mi sono sentita meglio, alleggerita". Ora, la scrittura espressiva la usa per superare i momenti negativi del suo lavoro.
Del resto, le emozioni brutte non sono tutte nocive. La psicologa Barbara Fredrickson fa notare le differenze: alcune sono, non solo normali, ma anche indispensabili a una vita compiuta. Come il lutto per una persona cara che aiuta ad accettarne la perdita.
Nel suo ufficio alla University of North Carolina a Chapel Hill c'è la foto di lei con il Dalai Lama, che a maggio le ha chiesto di spiegarle i risultati delle sue ricerche. Lei ha risposto che distingue tra il pensare positivo e il sentire positivo. "Pensare positivo può portare qualche volta a sentimenti positivi, ma non sempre". Lo paragona a chi indossa una maglietta con la scritta "La vità è bella". La frase può dare sensazioni piacevoli, ma non garantisce gioia duratura.
Barbara Fredrickson sottolinea la transitorietà delle sensazioni positive e critica il tentativo di volerle far durare a tutti i costi. Non è necessario, dice: anche se passano, le emozioni sono comunque delle risorse, e i momenti felici importanti sono per l'individuo una riserva d'energia e un patrimonio di resistenza. "E' questo il modo con cui le passioni positive ci rendono resistenti e ci rafforzano nel tempo". Senza obblighi né pressioni.

(articolo di Anna Gielas, pubblicato sul settimanale Der Spiegel del 01/01/2011. Traduzione di Rosa a Marca)
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