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Ripensare l’economia: un’alternativa alla dicotomia statalismo/libero mercato
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Editoriale di Alessandro Pedone
6 maggio 2020 9:51
 
Con questo concludo un mini-ciclo di articoli attraverso il quale vorrei portare il mio piccolo granello di lavoro per gettare dei “semi” di innovazione nel pensiero collettivo, affinché possa emergere un modo nuovo di pensare l’economia per i prossimi decenni.

Il punto di partenza di questo nuovo pensiero è l’abbandono del paradigma della scarsità. L’economia attuale, semplicemente, è figlia di un'epoca che non esiste più perché la tecnica ha cambiato il contesto. Ne ho scritto nell’articolo del 31 Marzo 2020.
Il secondo pilastro è l’abbandono del “totem” (per gli economisti classici) dell’equilibrio di mercato. Uno strumento utile quando non c’era di meglio, ma oggi sostituibile, sempre grazie all’avanzare della tecnologia, con l’equilibrio di sistema.
Nell’articolo del 28 aprile scorso ho provato ad articolare meglio questo concetto.

Abbandonare il “totem” dell’equilibrio di mercato porta con sé un’insidia significativa che semplifico grossolanamente con il termine “statalismo”.
Grazie alla tecnologia moderna, le informazioni macroeconomiche (moneta in circolazione, produzione, inflazione, tasso di occupazione, ecc.) possono essere agevolmente accentrate e valutate in tempo reale. E’ logico ed efficace, quindi, lasciare che vi sia un soggetto centrale che si occupi di regolare le principali variabili di sistema per assicurarsi che il complesso degli operatori economici sia incentivato ad agire per mantenere l’equilibrio di sistema.
Al contrario, le informazioni necessarie per prendere decisioni ottimali sulle singole scelte economiche (microeconomia: produrre o meno uno specifico bene/servizio, a che prezzo metterlo sul mercato, indebitarsi o meno per produrlo, farlo direttamente o dare parte del lavoro in conto terzi ed a chi, ecc.) difficilmente potranno essere disponibili in modo accentrato ed è anche estremamente discutibile che ciò sia auspicabile.
Per questa ragione è molto più utile che lo Stato, normalmente, non si metta a produrre beni e servizi direttamente, ma si occupi di generare il contesto normativo affinché i beni e servizi ritenuti utili dalla collettività possano scaturire dalla libera iniziativa delle persone fisiche o delle organizzazioni delle persone fisiche.

Da ormai molti decenni le società occidentali sono state infettate da un eccesso di ideologia che oggi viene definita “neo-liberista” e ciò rischia di far emergere una reazione contraria che potrebbe pensare di risolvere i disastri generati da questa cultura iper-individualista mettendo in mano allo Stato le decisioni micro-economiche.
Fare più ospedali, più scuole, più infrastrutture fisiche e telematiche, più cura dell’ambiente, ecc. Tutte cose sacrosante e per le quali il falso ostacolo che la cultura economica dominante ha sempre posto è stato: mancano i soldi!
Quei pochi che hanno superato quel modo vecchio di pensare l’economia comprendono bene che il problema non sono i soldi, poiché questi ultimi non sono altro che una convenzione sociale. I soldi non possono mai mancare, come non può mai mancare il metro all’ingegnere per progettare una strada!
Purtroppo, fra queste poche persone che hanno compreso l’inganno legato al denaro tenuto artificiosamente scarso, la maggioranza tende a pensare che il giorno in cui si superasse questa obiezione potremo, finalmente, fare le cose necessarie grazie allo Stato che potrà assumere le persone necessarie per realizzare concretamente queste cose.

Mi piacerebbe poter dire che sia così, ma purtroppo non potrà essere così!

Tra dire di fare più ospedali (prendiamo questo esempio perché adesso la sensibilità di molti è orientata verso la salute fisica) e farli effettivamente non ci sono di mezzo solo i soldi, ci sono letteralmente milioni di micro-decisioni che possono essere prese in modo corretto o sbagliato. Prendere queste decisioni in modo sbagliato, nel migliore dei casi porta a non ottenere i risultati desiderati, nel peggiore dei casi porta a peggiorare lo stato attuale.

Lo Stato semplicemente non ha le competenze per fare le scelte corrette, e pensare che lo Stato possa assumere le persone con le competenze per farlo è illusorio, perché il coordinamento di così tante persone è, a sua volta, un’attività quasi impossibile. E’ necessario che le singole scelte microeconomiche siano compiute in modo indipendente, ma coordinate da un sistema di incentivi e disincentivi che mantengano in equilibrio il sistema. Questo sistema di incentivi e disincentivi non può essere semplicemente l’arricchimento personale. Il vantaggio economico individuale può essere una delle variabili, ma certamente non l’unica e non la principale.

Affinché questo si realizzi, il punto di partenza è un nuovo strumento giuridico, una nuova forma di proprietà.
Oggi esiste la proprietà pubblica e la proprietà privata. Auspico che un giorno si possa istituire una tipologia di proprietà che chiamo “comune”, la quale non ha né precisamente le caratteristiche della proprietà pubblica, nel senso di “statale”, né le caratteristiche della proprietà privata, nel senso che normalmente conosciamo.
Vediamo in cosa si differenzierebbe questa terza modalità, da quelle che oggi conosciamo e perché ritengo che sia fondamentale sperimentale forme giuridiche di questo tipo.

La proprietà privata è una cosa sicuramente utile. La costituzione italiana, con l’articolo 42, riconosce e tutela la proprietà privata, ma “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.” La caratteristica della proprietà privata è che il proprietario decide come beneficiarne e non deve rispondere a nessuno del fatto che quel bene stia o meno generando un vantaggio collettivo: quindi zero burocrazia, ma anche nessuna esplicita e valutabile funzione sociale.
La proprietà pubblica, invece, dovrebbe essere sfruttata ad esclusivo beneficio della collettività, ma a questo scopo la gestione è così complicata,  figlia di una filiera decisionale così complessa, che diventa pressoché impossibile intervenire per cambiarla in tempi ragionevoli anche quando palesemente il risultato finale è contrario all’interesse collettivo.

Ciò di cui abbiamo un enorme bisogno è uno strumento giuridico che consenta di destinare una serie di beni ad una funzione sociale estremamente definita, e che sleghi i processi decisionali dal carrozzone dell’amministrazione pubblica e li esponga alla dinamicità della società civile. In sostanza dobbiamo demandare alla collettività parte della funzione sociale dell’attività economica, non ponendo l’arricchimento come fine, ma la realizzazione di specifiche funzioni. Come farlo non dovrebbe essere stabilito dallo Stato, ma lasciato alla libera sperimentazione, ovviamente all’interno di norme precise e di contesti di incentivi e disincentivi stabiliti a livello centrale. Le norme che istituiscono questo terzo tipo di proprietà dovrebbero garantire essenzialmente tre cose:
1) principi generali e regole generali per fare estrema chiarezza sulle finalità ed i limiti dell’uso di questo genere di beni;
2) regole estremamente efficienti sulla trasparenza nella gestione, affinché chiunque abbia interesse a farlo possa valutare la rispondenza della gestione con le finalità dichiarate per quel tipo di bene;
3) procedure che garantiscano il ricambio dei gestori su criteri fortemente meritocratici.

Come sempre il “diavolo” sta nei dettagli. Come questi tre punti verrebbero concretamente tradotti in norme farebbe tutta la differenza fra il fallimento di una buona idea o il successo della stessa. Il secondo aspetto, quello della trasparenza, è estremamente vasto. Includo in questo principio anche l’obbligo di dichiarare prima di avviare la gestione di un bene quali sono i criteri in base ai quali si potrà valutare la corretta esecuzione della gestione.
La gestione dei beni statali oggi è fatta in base a criteri che definire inefficienti è eufemistico.
Esistono spazi di miglioramento enormi, ma le resistenze per cambiare il carrozzone pubblico sono così granitiche che sperare di avere successi apprezzabili in tempi ragionevoli è semplicemente velleitario.
E’ molto più ragionevole creare una categoria di beni inizialmente abbastanza marginali, come potrebbero essere dei beni demaniali oggi praticamente inutilizzati, attraverso i quali sperimentare nuove forme di gestione nell’interesse della collettività, che non siano soggette né alla burocrazia statalista né alla “dittatura del mercato”. Questa nuova tipologia di proprietà potrebbe nascere anche grazie alla volontà individuale di liberi cittadini che deciderebbero di destinare parte del loro patrimonio ad esplicite funzioni sociali.

In sostanza si tratta di definire delle nuove regole che portino la flessibilità, che oggi esiste nel mondo della gestione dei beni privati, all’interno della gestione dei beni per finalità sociali.

Concludendo, il falso problema della mancanza del denaro che ci consentirebbe di realizzare le cose di cui la società ha bisogno è solo l’aspetto più facile da risolvere, anche se oggi lo ha compreso solo una minoranza di persone. Il vero problema è molto, molto più complesso. E’ necessario creare un contesto nel quale le migliaia di micro-decisioni che devono essere prese per fare bene quelle cose che tutti auspichiamo vengano assunte non solo in modo onesto e con le migliori intenzioni (cosa già non facile, necessaria, ma non sufficiente), ma anche disponendo delle corrette informazioni e della necessaria professionalità.
Questo è un problema molto più difficile da affrontare. Pensare di risolverlo con i criteri del secolo scorso, in sostanza delegando le decisione al fantomatico “Stato” che saremmo tutti noi, significa non aver compreso assolutamente niente circa i sistemi complessi e votarsi a delusioni e fallimenti inevitabili.
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