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Il controllo dei dati personali compromette le libertà
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Articolo di Redazione
21 ottobre 2018 12:18
 
 Analisi. E’ una litania. Facebook ha ammesso, venerdì 12 ottobre, che alcuni dati personali di 29 milioni di internauti sono stati rubati da alcuni pirati informatici. Quattro giorni prima, il suo concorrente Google faceva sapere che una falla aveva esposto mezzo milioni di utenti di Google+.
Sono solo gli esempi più recenti. Ma ogni giorno, ogni mese, ogni anno c'é una una quantità ininterrotta di pirati e fuga di dati. Dall’azienda di credito americana Equifax al grande gruppo Yahoo!, passando per Target, British Airways, Uber, Adidas, Exactis o Ashley Madison.
Nessuno si muove, o con rare eccezioni
La questione è semplice: se avete utilizzato Internet in questi ultimi dieci anni, una parte della vostra intimità è accessibile online. In primo luogo, per le aziende e le applicazioni di cui utilizzate i servizi. Al di là delle falle degli hacker (“pirati”), i dati personali sono diventati il carburante della società del XXI secolo. Tutte le nostre azioni digitali sono captate, misurate, identificate, analizzate, salvaguardate, nel momento in cui i servizi online non cessano di moltiplicarsi, dopo la comparsa dei computer fino agli smartphone passando per i vostri apparecchi televisivi, forni a microonde e automobili connesse. Ma i dati degli utenti sono anche, talvolta, accessibili a dei malfattori o a dei servizi terzi. Essi aggirano la sicurezza delle aziende e delle applicazioni specifiche, esplorandone i limiti, per attrarre sempre più informazioni.
Malgrado gli scandali a ripetizione e le istruzioni sempre più sistematiche nella vita dei cittadini, di fronte a ciò nessuno si preoccupa, con delle rare eccezioni, se non i militanti delle libertà digitali o qualche persona che non ne può più dei sistemi intrusivi.
A marzo, la vicenda Cambridge Analytica -che riguardava la campagna elettorale di Donald trump- ha rivelato che questa azienda aveva avuto accesso a delle informazioni private di 87 milioni di utenti. A parte una violenta tempesta politica, la vicenda non ha avuto il minimo impatto per Facebook. Sono passati sei mesi e gli utenti continuano ad essere fedeli a questa app. Sono sempre, tutti i giorni, 1,47 miliardi che si connettono a questa rete sociale.
Farebbe comodo pensare che l’umano del XXI secolo abbia rinunciato alla propria vita privata. Ma non si tratta di indifferenza. I sondaggi mostrano insistentemente e senza ambiguità che gli internauti amano ancora le reti sociali e gli smartphone. Come spiegare allora questa apatia? Molto spesso, parlare della vita privata evoca l’immagine degli eroi dei film “La vita degli altri” (200/), di Florian Henckel von Donnersamrck. Ci si immagina questo agente della polizia politica della Germania dell’est, un casco calato sulla testa, mentre ascolta attentamente il minimo sussulto di vita dei suoi vicini del piano di sotto.
Per la gran parte di noi, però, non c’é un agente dei servizi segreti dietro lo schermo del nostro smartphone. Nessuno, sia esso Google o Facebook o qualunque altra azienda digitale, esaminerà i dettagli dei nostri viaggi, la cronologia delle nostre ricerche o le nostre ultime foto delle vacanze. Anche i pirati di Google o di Facebook non hanno a che fare senza dubbio con l’intimità individuale dei loro obiettivi.
L’incredibile macchina di condizionamento
Per decenni, a ragione, difendere la vita privata significava proteggere l’individuo. Ancora oggi, ci si ostina a misurare le conseguenze individuali di questa raccolta sfrenata di dati personali e di pirataggio a ripetizione. Ma il paradigma è cambiato: la questione dei dati personali non è un problema di intimità. E’ una questione di libertà collettiva. Prendiamo la vicenda Cambridhe Analytica: il problema non è che Donald Trump e la sua équipe della campagna elettorale hanno metodicamente consultato la lista degli 87 milioni di utenti di Facebook. Ma che essi abbiano potuto utilizzare informazioni, aggregate a milioni di altre, per condurre una campagna politica estremamente personalizzata, quasi individualizzata, usando l'incredibile macchina di condizionamento dei messaggi proposti da Facebook.
L’impatto di questa fuga di dati personali non è più individuale, è collettivo. Non si tratta dell’intimità della propria esistenza a confronto con una organizzazione politica, ma della libertà per tutti di scegliere in coscienza i propri dirigenti politici o le proprie condizioni comuni di vita.
Gli algoritmi limitano le nostre vite: ci dicono cosa acquistare, o dove partire in vacanza, chi incontrare, quali articoli di stampa leggere, come spostarci, decidono ciò che noi possiamo scrivere.
Questa trama tessuta intorno alle nostre vite viene dai nostri dati personali. E’ la somma, l’aggregazione e la combinazione di dati attraverso la combinazione di altri migliaia, cioé milioni di esseri umani, che crea la loro potenza.
Ciò che spinge un’azienda ad orientare le nostre scelte, analizzando i nostri dati e quelli degli altri, sarà un dato perennemente oscuro. In fin dei conti, e se nulla cambia, poiché queste aziende sono sempre più coinvolte nelle nostre attività quotidiane, passando gradualmente da "suggerimento" a "ingiunzione", saremo senza dubbio intrappolati da dati personali. Si deciderà in nostra vece, in un modo che ci sarà presentato come ottimale poiché frutto dell’analisi dei dati di milioni di persone la cui vita è simile alla nostra, confiscandoci una parte del nostro libero arbitrio. Non si tratta di intimità di per sé di una qualche impresa della Silicon Valley, ma di libertà individuale.
Un’urgenza come quella del clima
L’unica soluzione è di limitare la disseminazione ai quattro venti dei nostri dati personali. Ma come farlo senza ritirarsi dalla connessione in Rete, sia essa sociale che professionale, di una società ormai digitale? Come rinunciare a tutti i vantaggi? La soluzione si trova in qualche parte della vita pubblica (regole politiche per limitare la raccolta e l’uso dei dati) e individuale (ricorso ad una tecnologia più frugale e più decentralizzata).
Queste problematiche non vi ricordano niente? La questione della vita privata si avvicina ad un altro problema di risorse individuali e conseguenze collettive: l’inquinamento.
Una foto postata su Facebook o un acquisto su Amazon possono dare degli scossoni alla democrazia: niente di più che un singolo percorso in automobile che, di per sé, mette il Pianeta in pericolo. E’ quando vengono aggregati e combinati che il danno si manifesta e diventa evidente.
Sicuramente l’urgenza sul clima va ben oltre la questione dei dati personali. Ma la comparazione mostra l’ampiezza del cambiamento di modelli che che sarà necessaria per sconfiggere la piaga che la raccolta dei dati personali fa pesare sulla democrazia.

(articolo di Martin Untersinger, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 20/10/2018)
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