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Mangiare sano e nel rispetto dell’ambiente. Se costa di più non serve al bene comune
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Articolo di Vincenzo Donvito
19 luglio 2019 13:35
 
  L’ultimo ritrovato industriale della Nestlè induce ad una riflessione che porta ad una necessità fondamentale per l’ambiente e la nostra salute. Il gigante agroalimentare svizzero, dal prossimo autunno commercializzerà in Giappone una barretta di cioccolato KitKat che non conterrà zucchero: usando le bucce delle fave di cacao (che abitualmente sono rifiuti) è riuscita a rendere sempre dolce questo prodotto, ma con un 40% in meno di zucchero. Ma siccome costa di più trattare le bucce che non acquistare zucchero, questo KitKat costerà di più e sarà venduto ad un prezzo maggiore.

Non è una novità nel mercato dei cibi cosiddetti sani. E’ quanto accade nell’enorme mercato del bio che, per cure e strutture, non potrebbe costare meno di quello tradizionale: l’automazione e la diffusione contribuiscono in modo determinante ad avere prezzi più abbordabili del bio. Poi ci sarebbe da disquisire su quanto alcuni bio contribuiscano a far meno male ad ambiente e salute… ma questo è un altro discorso.

Ciò che accade per la nostra barretta di KitKat è eclatante: l’uso delle parti scartate del prodotto (bucce delle fave), che finiscono nei rifiuti, se indirizzate verso un ciclo produttivo, costano più dello zucchero. Questo è il messaggio e la giustificazione che ci arriva dalla Nestlé. E tecnicamente non abbiamo dimostrazioni per contestarlo.

Ne prendiamo atto e cerchiamo di capire.

Il meccanismo è semplice. Nella grande produzione e nella altrettanto grande distribuzione, ciò che conta in modo rilevante è il numero più che il costo della materia prima. Nel nostro caso la materia prima ha di per sé un costo sotto lo zero visto che è un rifiuto; ma non farlo essere tale, trasformarlo in una polpa che produce un effetto dolcificante al 40% simile a quello dello zucchero tradizionale, ha un costo industriale maggiore e, di conseguenza, un costo maggiore nella vendita, all’ingrosso e al dettaglio: la filiera non è predisposta per questo prodotto ma per un altro.

A questo meccanismo semplice e logico, se ne contrappone un altro con le medesime caratteristiche di semplicità e logicità: torna che ciò che viene prodotto e non fa male (o fa meno male) ad ambiente e salute debba costare di più e, di conseguenza, è più conseguenziale che sia acquistato da consumatori più ricchi? Qualcosa non torna. E’ logico che siano i più ricchi a stare meglio in salute e ad essere i principali attori del “recupero” ambientale a seguito di una civilizzazione che ha molto distrutto? Inoltre: sono i ricchi ad essere la maggior parte dei consumatori? No, ovviamente. Ancora: può questa minoranza (i ricchi) che trae benefici per la propria salute e dà benefici all’ambiente essere determinante per il bene comune sanitario e ambientale? No, ovviamente. E sempre ancora: alla comunità (tutta) costa meno che tutti stiano bene in salute e che sempre questi tutti contribuiscano all’equilibrio ambientale, oppure che ciò sia appannaggio di una minoranza (i ricchi)? No, ovviamente non costa meno se ciò riguarda solo una minoranza.

Crediamo che occorra che a queste evidenze e logicità i legislatori e i governi diano il loro contributo. In attesa che le filiere dei cibi “sani” siano in grado di costare meno di quelle dei cibi “non-sani”, non si può stare alla finestra e disciplinare solo il traffico sul fiume del business che scorre sotto le proprie finestre. C’è un’emergenza e bisogna incentivare certe produzioni rispetto ad altre, altrimenti, siccome i costi attuali del mercato non sono in grado di supportare ciò che fa bene rispetto a ciò che fa meno bene, le novità come la nostra barretta di KitKat saranno solo un business per la Nestlé.

Se poi facciamo mente locale su queste specifiche produzioni “tradizionali” (le barrette di cioccolato… tipico cibo-spazzatura, i cui maggiori consumatori sono le fasce più povere delle popolazioni), la questione appare ancora più urgente ed evidente.
Bene (per loro) che la Nestlé realizzi e proponga nuovi business (basati anche sulle mode…), ma sarebbe più che opportuno che legislatori e governanti ne traggano ispirazioni per il bene comune, sì che venga superata l’assurdità che l’uso di un rifiuto dello stesso prodotto costi più di un altro prodotto aggiunto. Sono, alla bisogna, sufficienti le politiche e gli investimenti dello Stato per agricoltura e industria e commercio? La parola, e le decisioni, a chi di dovere. Noi, consumatori e osservatori, abbiamo posto il problema.
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