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Pianificare nell’era dell’incertezza
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Editoriale di Alessandro Pedone
9 giugno 2020 18:10
 
 
“Se fallisci nel prepararti,
stai preparando il tuo fallimento
Benjamin Franklin

Tranquilli, ho un piano
apocrifo, comico
Wolfgang Amadeus Mozart

I due concetti che hanno maggiormente influenzato le mie scelte professionali, nel settore della finanza, sono la pianificazione e l’incertezza. In questo articolo li combinerò insieme mostrando la necessità di una profonda rivisitazione del concetto di pianificazione finanziaria, allontanandosi dalla versione anglosassone - che nell’Europa continentale non ha mai veramente preso piede - per abbracciare una visione completamente coerente con la nuova realtà che accademicamente ha iniziato a trovare spazio da inizio secolo ed è ormai una realtà consolidata: l’era dell’incertezza

Breve storia della pianificazione finanziaria
Ormai vent’anni fa ho iniziato la professione di consulente finanziario indipendente affascinato dai Financial Planner americani incontrati da ragazzo a casa di una mia amica a San Francisco. Il Financial Planner di questa mia amica mi introdusse nel mondo della finanza, da sbarbatello, e da allora il “morbo” non mi ha più lasciato. 
La data “ufficiale” di nascita del concetto di pianificazione finanziaria è il 12 dicembre 1969 quando si tenne un meeting al Chicago’s O’Hare Airport organizzato da Loren Dunton e James R. Johnston al quale parteciparono 11 persone (13 con gli organizzatori), prevalentemente assicuratori. Tre anni dopo, l’associazione dei pianificatori finanziari USA raccoglieva circa 3.000 membri in 37 Stati. Ovvio che all’epoca il concetto di pianificazione finanziaria non era così definito come lo è stato negli anni successivi. Negli anni ‘70 ed ‘80 la pianificazione finanziaria acquisisce un corpus teorico rilevante, in particolare con l’affermarsi della cosiddetta “Modern Portfolio Theory” (MPT) alla quale hanno dato grandi contributi Nobel come Henry Markowitz, William Sharpe e altri. L’introduzione dei computer ha reso possibile l’applicazione pratica dei concetti della MPT e la pianificazione finanziaria, come tutta la finanza, ha trovato strumenti operativi prima impensabili. 
Gli anni ‘90, proprio quando io ho fatto la conoscenza con il primo financial planner, hanno visto l’affermarsi della professione nei Paesi anglofoni, grazie ad una gestione efficace del marchio “CFP” (“Certified Financial Planner”) con tutta la formazione e la comunicazione collegata a questo marchio, diventato una garanzia di professionalità riconosciuta dal mercato nei Paesi anglofoni. 
In Italia, ma si può dire nella quasi totalità dell’Europa continentale, il concetto di pianificazione finanziaria non ha mai veramente preso piede. 
Nel 2010, all’interno dell’associazione di categoria dei consulenti finanziari indipendenti, insieme al collega Giorgio Canella abbiamo promosso un gruppo di lavoro per creare un “position paper” finalizzato a sensibilizzare i colleghi circa l’importanza di orientare la professione di consulente finanziario indipendente verso la pianificazione finanziaria. Chi fosse interessato a capire cosa s’intende - in senso classico - per pianificazione finanziaria può leggere questo position paper qui.
Si possono individuare diverse ragioni per le quali la pianificazione finanziaria ha avuto così tanto successo nei Paesi anglofoni e così scarso successo in Europa continentale: quella probabilmente decisiva è la diversa presenza del welfare state.
Nei Paesi di cultura anglosassone, mandare i figli all’università è una spesa di svariate decine di migliaia di dollari e le alternative sono solo due: indebitarsi per moltissimi anni o pianificare un accumulo di risparmio. Discorso simile vale per la pensione. 
In Europa, in genere si può mandare un figlio all’università e pensare di non morire di fame in pensione anche senza un piano finanziario. Mancando questi due elementi, tutta la cultura della pianificazione non è riuscita ad attecchire in Europa ed è un peccato perché pianificare è molto, molto, di più che pensare agli studi dei figli ed alla pensione. 

I limiti della pianificazione finanziaria in senso classico ed il Goal Based Investing
Dopo la grande crisi finanziaria del 2008 il concetto tradizionale di pianificazione finanziaria è un po’ entrato in crisi poiché il vecchio modo di intendere la pianificazione finanziaria era legato a doppio filo con i vecchi concetti di costruzione dei portafogli finanziari basati sull’ottimizzazione del rapporto rischio/rendimento (già citata MPT). 
Questa presunta ottimizzazione (la “famosa”, almeno nel settore, “frontiera efficiente”) presuppone una stima delle aspettative di rendimento (insieme alla varianza e covarianza, ma non desidero entrare nei dettagli tecnici).
Il 2008 ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che tutti i calcoli che stavano alla base della pianificazione finanziaria tradizionale erano completamente sbagliati. 
L’ultimo ventennio, che va dallo scoppio della bolla tecnologica alla crisi in corso, passando per la grande crisi finanziaria, si può definire come l’inizio dell’era dell’incertezza
Il concetto di incertezza, a livello accademico, è diventato ormai un dato assolutamente acquisito, non solo in finanza, ma particolarmente in finanza. 
In Italia il noto psichiatra Vittorio Andreolli ha scritto per i tipi di Rizzoli “Homo Incertus”, nel quale mostra il concetto di incertezza nell’intera società, anche con qualche accenno agli aspetti economici e monetari. 
Paolo Sironi, Global Research Leader Banking and Finance presso l’IBM Institute for Business Value, teorico della trasparenza dei mercati finanziari, la chiama “incertezza fondamentale”, per ribadirne il carattere ontologico. 
Come ha scritto recentemente: “L’incertezza non è dunque più una variabile esogena al sistema, come spesso ipotizzato dagli economisti e analisti finanziari, ma diventa endogena e come tale deve essere integrata nei nostri processi decisionali e comportamentali, quindi nel nostro sistema sociale e professionale di riferimento”. Per tradurlo in termini un po’ più semplici: un tempo si credeva che sebbene i mercati finanziari sono imprevedibili, la natura fondamentale dei mercati consente di applicare la statistica per inferire una stima ragionevole di rendimento di lungo termine (oltre alla varianza e covarianza).
In sostanza si riteneva di non poter prevedere la direzione di breve del movimento, ma almeno si poteva prevedere l’ampiezza dell’oscillazione ed un ragionevole range di rendimento di lungo o lunghissimo termine.  
Oggi sappiamo che questo non è vero. Chi continua ad applicare queste tecniche statistiche alla costruzione dei portafogli lo può fare solo per tre ragioni: 1) è ignorante, 2) è disonesto intellettualmente, o 3) in qualche modo è “costretto” (per ragioni legislative, perché non conosce di meglio, perché l’istituzione per la quale lavora usa solo questi modelli, ecc.). 

Dalla perdita di appeal del concetto di pianificazione finanziaria, dopo la grande crisi finanziaria del 2008, nasce la proposta di Goal Based Investing (GBI) che possiamo tradurre con “investimenti basati sugli obiettivi di vita”. Al momento il concetto è poco più di una riverniciata di marketing sul concetto di pianificazione finanziaria. 
Il grande limite della pianificazione finanziaria tradizionale è l’uso delle stime dei rendimenti futuri (e degli altri parametri statistici). Il Goal Based Investing, così come viene inteso dalla grande maggioranza degli operatori in finanza, non supera questo limite e diviene quindi un semplice trucchetto di comunicazione, quando potrebbe essere uno strumento potentissimo di pianificazione.

A cosa serve pianificare?
La pianificazione finanziaria in senso anglosassone si propone in sostanza di sfruttare i mercati finanziari per poter realizzare degli obiettivi che non sarebbero realizzabili altrimenti, senza i rendimenti dei mercati finanziari. 
Stringendo all’osso, il ragionamento è il seguente. “Caro investitore, tu vorresti mandare tuo figlio all’università fra 15 anni e ti serviranno 80 mila dollari. Non riesci a mettere da parte 450 dollari al mese per questo obiettivo, ma se investi in azioni, le quali renderanno il 6% medio all’anno, ti basterà investire 300 dollari.” 
Per alcuni anni, nei primi anni 2000, io stesso ho proposto, in piena scienza e coscienza, un approccio simile a questo. Peccato che quel 6% dell’esempio è del tutto aleatorio e venendo a mancare quel dato, crolla tutto il castello della pianificazione intesa in questo senso. 

A questo punto, la quasi totalità degli investitori tende a pensare che pianificare sia semplicemente inutile. 
Se non ci sono dati attendibili sui quali basarsi, che senso ha pianificare? Sembra un ragionamento assolutamente logico, ma in realtà è un gravissimo errore. Proprio perché non ci sono dati attendibili che pianificare è ancora più importante!  

L’errore consiste nel dare per scontato che il fine ultimo della pianificazione sia raggiungere gli obiettivi. I financial planner, purtroppo, hanno “venduto” questa versione della storia perché è molto più semplice da comunicare, anche se è fondamentalmente sbagliata. 
Il fine ultimo della pianificazione è quello di aiutare a prendere decisioni in condizioni di incertezza e migliorare sempre di più la capacità di prendere queste decisioni
Si progetta e si applica un piano finanziario non certo per realizzare obiettivi che senza il piano non sarebbero realizzabili, ma perché attraverso il piano si riesce a prendere decisioni finanziarie, in un contesto di assoluta incertezza, in modo molto più efficace di quello che si può fare in assenza del piano stesso. 
Questo approccio alla pianificazione è semi-sconosciuto in finanza, ma nei prossimi anni, quando il concetto di incertezza fondamentale sarà sempre più diffuso, diventerà la norma. Passeranno molti anni, ma la direzione è necessaria e scontata.

Per prendere decisioni finanziarie in modo efficace e soddisfacente la caratteristica più importante che l’investitore deve possedere è la “consapevolezza finanziaria olistica”. Ciò significa aver interiorizzato i meccanismi basilari dei mercati finanziari in rapporto alle proprie necessità di vita collegate ad esigenze monetarie, ma anche alla propria psicologia. Conoscere non è avere consapevolezza
La funzione più importante di un piano finanziario (paradossalmente anche quella più trascurata) è quella di accrescere la propria consapevolezza finanziaria olistica. 
La consapevolezza si accresce solo attraverso l’esperienza diretta. Essere consapevoli non significa semplicemente conoscere, ma fare esperienza di un evento sul quale si è precedentemente ben riflettuto. 

Affinché questo percorso di consapevolezza interiore si realizzi è necessario 
  1. dotarsi di obiettivi “smart” (specifici, misurabili, ambiziosi ma raggiungibili e temporizzati) 
  2. realizzare un piano d’investimento con regole molto dettagliate, progettate sull’assunto che i mercati sono assolutamente incerti;
  3. vivere le conseguenze delle scelte previste dal piano.
Man a mano che i mercati faranno il loro corso, l’investitore potrà prendere consapevolezza delle sue reazioni, delle sue aspettative e sulla base di queste nuove consapevolezze potrebbe maturare diversi obiettivi e potrebbe modificare o integrare il proprio piano. 

Come per tutte le cose, il “come” è sempre più importante del “cosa”
Affinché i piani finanziari siano efficaci devono essere progettati avendo aspettative realistiche, partendo - come detto - dal presupposto dell’incertezza dei mercati e non del semplice rischio-statistico. Uno dei modi di gestire l’incertezza è prevedere nel piano numerosi momenti di verifica ed adeguamento del piano stesso in base alle mutate condizioni. Tutti questi aspetti sono conseguenze dell’aver compreso pienamente ed accettato l’incertezza fondamentale dei mercati. 

Quando un investitore ha sviluppato un’elevata consapevolezza finanziaria olistica, comprende sempre di più che l’incertezza non costituisce un problema, se hai imparato a gestirla. Questo però richiede tempo, una certa dose di pazienza e disciplina e - possibilmente - una guida che non abbia interessi in conflitto con l’investitore. 
 
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